Dannazione e Resurrezione di Ariella G.

Dannazione e Resurrezione di Ariella G. Dannazione. C’ero, questo bastava. Non importava ciò che sentivo e soffrivo, non aveva importanza. Per lui, mio marito, ero la cucina a gas dove trovare la cena pronta al suo rientro. Il resto non contava. Il dolore, la rabbia, mi soffocavano perché nonostante facessi presente cosa accadeva dentro di me non trovava risposte, un appoggio, un abbraccio. Menopausa, portiamo pazienza, passerà tornerai a essere quella di sempre. E il disagio di vivere aumentava ogni giorno di più.


Questa insoddisfazione, questo non essere presa in considerazione mi faceva girovagare con la mia auto in cerca di un qualcosa che non riuscivo a trovare, quelle risposte che io cercavo disperatamente. La solitudine delle mie giornate era fatta di silenzi grevi, di apatie che logoravano. Fu in quel periodo che entrai in un bar per sorbire un caffè e vidi i video poker, mi avvicinai osservando i giocatori, le loro espressioni assenti, fuori dalla realtà, persi in un mondo che allontanava il cupo pensare di problematiche esistenti, un isolamento totale, una fuga irreale da ciò che poteva ferirli o tormentarli.


Cominciai così. Per non sentire, per non vedere, per non pensare. Quando mi mettevo davanti a quella macchinetta non esisteva più nulla, né dolore né sofferenza, la mente vuota da ogni pensiero, nell’anima l’assenza totale di ciò che ero e che ero stata. Esisteva solo quel suono che facevo azionare dalle mie dita impazzite, quel suono che occupava la mente e cancellava ogni cosa che potesse farmi male. Dimenticavo tutto. Volevo annullarmi e non capivo che mi stavo distruggendo con le mie stesse mani.

Era diventata la mia ragione di vita il video poker. Mi alzavo, mi lavavo e correvo in qualsiasi posto dove era possibile giocare, passavo giorni interi , ero padrona dei miei giorni, nessuno mi chiamava, non lo aveva mai fatto prima, mai una telefonata per chiedere che facevo, se andava tutto bene, dove ero stata, mai, quindi rientravo alla sera prima del suo rientro per preparare, a mala voglia, la cena, nel silenzio più completo si cenava e poi ognuno guardava il programma preferito alla TV.


Ogni fine mese mi consegnava il mensile per l’andamento della casa, spendevo il minimo indispensabile, mi privavo di ogni cosa, perché era importante il giocare, avere i fondi per giocare, poi il denaro finiva e cominciai a chiedere prestiti alle finanziarie fino a indebitarmi malamente, continuavo la mia dannazione che mi portava verso un baratro infinito, ero una automa assente, apatica, indifferente, dilapidai una carta di credito, non riuscivo far fronte a ciò che stava accadendo, ero una drogata del gioco.

Un anno di un inferno senza fine. Poi venne quella sera di novembre. Buio, nebbia, freddo. E l’acqua del fiume che mi chiamava. Parcheggiai l’auto vicino a un ristorante chiuso e mi diressi verso il ponte, ascoltavo la voce gorgogliante dell’acqua che sussurrava. Mi sentivo serena, pronta. Guardai il cielo cupo, senza stelle, senza lacrime volevo fuggire, da vigliacca, alla vita che mi ero scelta, volevo andarmene senza una parola, senza un saluto, volevo chiudere una realtà che mi distruggeva, che oltraggiava il mio essere donna, moglie e madre.


Il trillo del cellulare mi strappò dalla mia follia. Lo aprii meccanicamente e la cara voce di mia figlia mi chiese: ”Dove sei mamma?”, quella voce angosciata, timorosa mi fece male, chiusi il cellulare e mi piegai sulle ginocchia, qualcosa dentro di me si spezzò e scoppiai in lacrime, lacrime che lavavano tracce di rabbia, di delusione, di sofferenza, mi vergognai di quello che avevo fatto, di quello che stavo per fare, mi vergognai della mia debolezza e della mia dannazione.


Resurrezione. Ritornai a casa e ritornai in me. ”Mamma dove sei?”. In questa piccola, dolcissima frase era racchiusa la preoccupazione per me, il bisogno di me e in quella stessa notte giurai a me stessa di non giocare più. Ma non per lei, anche per lei, ma più per me stessa, per risalire quella china dove ero precipitata per la mia debolezza. Dovevo farcela a tutti i costi.

Quattro anni divisa in casa, impossibilitata ad avere una mia vita, senza un lavoro, reclusa in una casa indifferente e ostile, eppure lottavo, lottavo con tutte le mie forze, da quella notte, contro il desiderio di correre e giocare, mi aiutavo cercando un lavoro, un lavoro qualsiasi per avere un mio reddito, in quanto ero in fase di separazione e dovevo assolutamente assicurarmi un futuro con le mie mani, rientravo alla sera dopo le lunghe camminate in cerca di un’occupazione, lunghi colloqui, attese, speranze disilluse, eppure continuavo, non volevo mollare, non volevo subire la vita, era la vita che doveva subire la mia ostinazione di vivere.


Centimetro dopo centimetro risalivo la china da dove ero precipitata per mia volontà, volevo punire chi non aveva considerazione per la mia persona, invece avevo punito me stessa per non avere avuto il coraggio di prendere le mie decisioni, di non avere fatto le scelte giuste al momento giusto, e ora ricominciare tutto da capo era difficile, però il mio coraggio ritrovato, la mia determinazione avrebbero vinto le difficoltà e alla fine trovai un lavoro notturno e cominciai saldare tutti i debiti fatti per il gioco, cominciai ad avere un mio spazio ma soprattutto la mia libertà.

Nei momenti liberi la mia mente si faceva delle domande: se avessi avuto amore, comprensione, considerazione sarei caduta in quel cerchio infernale? L’amore esiste o è una favola inventata? C’è un Dio per chi cade? Domande che resteranno senza una risposta. Ora sono una donna libera, razionale, fredda quasi cinica, molto diversa dalla donna che ha avuto un matrimonio portato avanti per incuria negli ultimi dieci anni (frase del mio ex marito), una donna che credeva nei sogni, che aspirava ad avere solo una famiglia felice e unita e ora una donna single che ha un valore inestimabile da difendere: la sua libertà!


A distanza di tempo ho la consapevolezza che siamo arbitri e artefici del nostro destino, con le nostre scelte, con le nostre reazioni alle azioni che ci feriscono, di fatto nessuno mi ha aiutata a uscire dal vizio del gioco che si era impossessato di me e mi aveva resa schiava, è stata una mia libera scelta dire di no, lasciandomi quale esperienza amara: che non avrò mai più fiducia in nessuno, a parte me stessa.

ARIELLA G.


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Foto di Abitare a Roma