Il sogno infinito dell’invisibile di Ariella G.

Mi sveglio all’alba come al solito, mi gratto dappertutto in cerca di qualche insetto che aveva magari dormito con me e mi metto a sedere, che voglia di profumo di caffè, che voglia di un bella brioche magari farcita con cioccolata, ma niente di tutto questo, solo il puzzo del cassonetto dell’immondizia e la vicinanza di altri esseri umani che ancora dormivano sotto i cartoni per ripararsi dal freddo, mi alzo stancamente, faccio fatica perché i dolori alle gambe ogni giorno di più si facevano sentire.


Era una giornata grigia, foriera di neve, guardo con apprensione il cielo e in cuor mio mi auguro che la neve non si precipiti giù dal cielo, altrimenti mi devo cercare un posto più riparato per non svegliarmi l’indomani ricoperta di bianco o addirittura di non svegliarmi affatto perché congelata, mi ritornano in mente ricordi che volevo seppellire, che non volevo venissero alla mente per farmi soffrire più di quanto stavo soffrendo.

La vita agiata, un bel matrimonio, una bella casa, poi qualcosa andato storto, la mancanza di lavoro, la disperata ricerca di un lavoro per entrambi, l’espatrio del mio ex marito e io affrontare la difficoltà estrema di una vita senza un impiego, un soldo e senza una casa perché espropriata per debiti, tutto tornava alla mente, inutilmente cercavo di scacciare quelle visioni che passavano davanti ai miei occhi, dovevo rendermi conto della realtà che stavo vivendo e non vivere in un passato ormai remoto.


M’incammino sul marciapiede, intanto frugo con lo sguardo se trovo qualcosa da mettere sotto i denti, ho fame e freddo, magari se vado in quell’ostello una ciotola di latte caldo lo rimedio, cammino trascinando i piedi calzati con un paio di scarpe da ginnastica sfondate, senza calze, ho i piedi congelati ma non ci penso e continuo camminare, arrivo alla porta dell’ostello e chiedo se posso avere qualcosa da mangiare, mi passano una tazza di tè e un pezzo di pane, non mi lamento, sarà forse l’unico pasto della mia lunga giornata da clochard.

Girovago per le strade senza una meta precisa, guardo a destra e a sinistra per trovare un ricovero per la notte, dormire per la strada per una donna è un rischio ma questo mi tocca e così devo fare, mi infilo in un vicolo stretto, buio, ci sono dei cassonetti dell’immondizia, frugo per cercare qualcosa per ripararmi, un cartone, dei cartoni, una coperta, un qualcosa che possa ripararmi dal freddo della notte, vedo dei scatoloni in fondo al vicolo e mi avvio, bene, con questi posso costruirmi un riparo, comincio a lacerare il cartone e costruire un mezzo giaciglio per terra e intorno, una specie di buco dove stare riparata.


Mi siedo stanca e dolorante, guardo il cielo che diventa sempre più plumbeo e alcune lacrime mi scendono sulle gote gelate, le tiro via rabbiosamente, sei viva, di cosa ti lamenti, hai un buco dove ripararti, un giaccone che ti farà da coperta, di cosa ti lamenti stupida, ormai la tua vita è questa e devi imparare ad accettarla, esco dal vicolo e cammino guardando le vetrine, la gente si scosta quando mi vede, volta la testa, ha disgusto nel vedermi, di questo non faccio caso, ci sono abituata, poi un signore distinto mi si avvicina e mi chiede: ”Hai fame immagino…” mi prende la mano e mi mette un po di soldi, lo guardo stupida nel rispondere: ”Grazie”’.

Com’è buono quel panino preso dal furgoncino di rosticceria che sosta nella via, lo mangio avidamente mentre in tasca so di averne un altro che lo tengo per questa sera, prima di dormire, penso che l’umanità non è del tutto cattiva, qualcosa di buono c’è, questa è una dimostrazione, ciò che guasta è l’indifferenza nella maggior parte dei casi e penso quando ero agiata, anch’io voltavo la testa da un’altra parte e ora che ho saltato la barricata capisco il mio errore d’indifferenza verso un prossimo che soffriva, capisco l’egoismo che avevo, stavo bene io quindi doveva stare bene il mondo tutto, no non è così, oggi sono una donna senza nome, una clochard anonima fra gli anonimi, invisibile fra gli invisibili, sento salire dal cuore un dolore acuto che non capisco se sia un dolore fisico o un dolore che venga dal più profondo della mia anima.


Comincia scendere la neve quindi torno nel mio nuovo rifugio, la sera sta scendendo velocemente e voglio trovami in quel sfasciato nido che mi sono preparata, m’infilo nel vicolo e mi avvicino piano per vedere se è stato occupato da qualcun’altro col quale dovrò fare discussione perché se ne vada, è mio, l’ho costruito io quindi deve andarsene, invece fortunatamente non c’è nessuno, a parte un gatto nero che mi guarda con due occhioni verdi bellissimi, non scappa e si mette in un angolo, disperato fra i disperati, io mi accoccolo e tendo un pezzo del mio panino e lui lo addenta piano, sospettoso, poi si avvicina e si acciambella sulle mie ginocchia, arriva un poco di calore da quel corpicino che si irradia per le gambe, lo stringo a me e parlo con lui, racconto la mia storia a quel gatto che ogni tanto socchiude gli occhi, parlo e parlo finché sfinita mi addormento.

Il sogno è bellissimo, sto volando nell’aria frizzante del mattino di primavera, sto volando e sono felice, mi guardo attorno e vedo tanta luce, non ho fame né freddo, mi sento lontana dalla società, dal mondo, sono libera dal dolore alle ossa, libera dai ricordi, libera da ogni cosa, sono così leggera da poter danzare insieme alle farfalle che mi sono intorno, no, non voglio svegliarmi, voglio continuare questo sogno per l’eternità, non svegliatemi, lasciatemi dormire.

L’invisibile distesa sul giaciglio di cartone sorrideva, il gatto miagolava vicino a lei E lei non poteva più sentirlo, lei era nel suo sogno infinito per l’eternità, lontana ormai dal mondo e dalle sue miserie.

Foto di  ilse Orsel da Pixabay