Lo voglio racconto breve di Giorgio Arcari

Lo voglio racconto breve di Giorgio Arcari. Un altro racconto di Giorgio Arcari per liberare la mente per poco da preoccupazioni, ansie e problemi, leggere è come essere in un’isola felice dove nulla ti può toccare e t’immergi in un’altra dimensione fantasiose che a volte rispecchia la realtà, altre no, buona lettura.

LO VOGLIO

La luce abbagliante in un luogo che ti aspetti oscuro, il sole di un mese che ti aspetti grigio. La distonia di una sala piena e di un traguardo vuoto, a milioni di metri di distanza. Lo so che sarò io ad aspettarla, ma nessuno mi ha fatto notare mai che per fare questo dovrò pur arrivarci, laggiù. La mia marcia. Niente musica però. Sinfonia di occhiate, qualche lacrima materna. Approvazione da entrambi i lati del percorso, spero. Qualcuno che si augura un buon piazzamento, abbastanza indietro, pur di essere il primo a lanciare l’immortale ed esilarante invito a ripensarci, stakanovista dell’ironia.

Il fotografo. Ah, il fotografo già mi odia. Il sole inaspettato, la porta e io lo stiamo costringendo al controluce. Lui sogna pose plastiche, poveretto, sguardi estatici e composizioni di giochi e abbracci. Io e lei. Lei ed io. Io e persone di cui scopro ora l’esistenza – saranno mica imbucati? – e che non rivedrò mai più, ma che non se ne andranno prima di avermi tirato in mezzo ad assurdità varie, giochi etilici e tagli di cravatta da centinaia di euro.

Quasi quasi me ne vado. Fotografami queste elegantissime chiappe in controluce, amico mio, e sorridi forte. Tanto lei è sempre in ritardo, questa volta pure da copione. La chiamo. La chiamo e le dico che voglio restare un amatoriale di buon livello, non voglio passare professionista. Certo, mi verrà a cercare con una grossa ascia rugginosa. Ma prima riderà. I miei scherzi la fanno ridere sempre. Rido io, rido da solo. La battuta non è male. Alcuni dei presenti sospettano che sia un po’ spostato. Così li sollevo dal dubbio. È una festa, bisogna essere altruisti.

Non prendo la porta, naturalmente. Mi getto tra le forche caudine di occhi e seggiole scomode. In mezzo alla grande menzogna. Sapete quando vi dicono che in certi momenti ti si svuota il cervello? Non pensi più a niente, tutto passa come un sogno ovattato. Bene, è una balla. Bugia pietosa, la mia mente comincia a ricordare e accelerare, accelerare e riportare alla luce. Grippa. Ad ogni passo mi ritrovo a lasciare indietro frammenti di strada, con solo un attimo per salutarli.

Sono in fondo alla sala. Sconosciuti e curiosi. Vecchiette a cui non è rimasto nulla di meglio da fare. Lì c’è il ragazzino che voleva fare lo scrittore. Che sa troppe cose per stare con i compagni belli e dannati, ma è troppo casinista ed indisciplinato per stare con i secchioni. Lo invitano tutti, ma nessuno insiste. È in tutte le foto, certo. Ma è defilato. E sorride sempre, ma a quell’età non si dovrebbero avere quegli occhi e quello sguardo, non ancora. Lo saluto, ma pochi altri passi lo lasciano indietro.

Ancora sconosciuti da un lato, parenti del sud e parenti di montagna dall’altro, confluiti nel tipico mezzosangue milanese che sono. Tra loro c’è il cronistello appena arrivato dalla provincia. Quello che correva dietro alle ambulanze e ai carabinieri nella notte. L’immortale incurante di ogni pericolo. Pronto a tutto per le sue quindicimila lire ad articolo. Lorde. Capello lungo, abbronzatura bianco latte e una barbetta che lo fa sentire più grande, anche se poi non fa altro che esaltare quell’innocenza che si sta infrangendo sempre più a ogni incidente, ogni scena di spaccio, ogni lenzuolo con annesso cadavere. Con lui mi fermerei volentieri a fare due chiacchiere, ma la sosta è fraintesa e la Puglia mi avvolge nel suo calore. Saluto anche lui. Forse sono davvero un po’ spostato e la vetta è ancora lontana, quindi riprendo la scalata.

Passi e passi. Mi sembra di essere in quel vecchio cartone animato sul calcio, dove correvano per sei puntate prima di vedere la porta ed il campo curvava all’orizzonte.

Memorie di odori e di spezie, di deserto e di miseria. Boschi e musica balcanica, il Mediterraneo maestoso, di un blu impossibile, montagne armene e pianori turchi. Ora al mio fianco cammina un ragazzo spigoloso, scurito e arrossato dal sole, gli occhi enormi per guardare la meraviglia del mondo. Ridere e scoprire, niente di più importante. Gerusalemme, Palestina, bella e maledetta dall’intifada. Imparare a conoscere l’odio, da chi ha perso tutto il resto. Incredibilmente, l’amore. Il primo, inaspettato e travolgente. La fine dell’eterno presente e la nascita dei tanti domani e dei tanti progetti. La guerra, intorno. Oscena e miserabile, un film reale e volgare, con la paura come unica protagonista. La guerra e l’amore. Poi un lampo e un tuono si portano via entrambi, per sempre. Il ragazzo si ferma e mi dà una pacca sul sedere. Ride, ed era tanto tempo che non lo faceva. Tanto tempo.

Intorno a me ora gli amici ed i parenti di Milano. L’epoca di Milano. L’epoca di colui che per viltade fece il gran rifiuto. Sentori di casa e di provincia. Silenzi e solitudini. Amori come libri di poche pagine, ma con lunghissime cronologie tra le note. Volti innumerevoli. E sorridenti. E distanti. Invitati anche loro a questo giorno, in questo tratto di percorso che ricorda d’improvviso quanto possa essere freddo gennaio. Cammino a lungo tra di loro, come se camminassi nell’unico vero mio passato, in una vita tutta al presente. Non c’è nessun ospite inatteso, qui. Nulla da lasciar loro, eccetto la bomboniera, più tardi, quindi accelero il passo. Là in fondo, per nulla imbarazzata, un’elegantissima damina inventa giochi per far passare il tempo. Figlia di questo passato, aspetta me e aspetta il futuro, aspetta di incominciare. Anche in questo tratto c’è stato il buono e il meraviglioso.

Le seggiole lasciano il posto ai banchi, finalmente. Sono quasi lì, vittorioso su questo tempo che si dilata e si dilata.

Qui mi fermo e mi risveglio. Le panche non sono piene, ma ci sono molte più persone di quante ne attendessi, attente e presenti, e guardano me. Anch’io mi sto guardando, perché qui non mi aspetto di incontrare nessuno. Nessun addio freddo o commosso da fare. Niente da perdonare e da perdonarmi, se non il quotidiano essere imperfettamente umani. Sorrido, bacio guance amiche, afferro mani e godo di abbracci. Nell’aria il rumore di piedi teatranti sul legno del palco, ora impacciati, ora sciolti. Il profumo della notte milanese di nuovo sorella. La riscoperta delle parole. Parole, così tante che un momento solo non riesce a comprenderle tutte. Discussioni appassionate che si trovano costrette a diventare d’appendice, a puntate. La musica, i sogni. Giovane, dopotutto, ragazzino. Quello che voleva fare lo scrittore fin dalla terza elementare. Tutto torna e tutto ha inizio di nuovo. Penna stanca e anima stanca tornano novizie. Il mondo è di nuovo grande e sconosciuto, il casco da esploratore è ancora sotto il letto. Basta togliere la polvere.

Maremoto e tsunami, fantasia ed amore. Nuovo, puro e torbido ad un tempo. Passione vorace come solo gli anni perduti sanno essere. Brahma e Shiva,  creazione e distruzione. Se la storia fosse perfetta, potrebbe finire qui. Potrebbe cominciare, da qui, raggiungendo il presente, ed il futuro, senza bisogno d’altro.

Non lo è, perfetta. È concepita in questo istante di passioni, ma la nascita è un altro affare. Un affare che riguarda questa marcia ad organo muto.

Per giungere alla nascita, per giungere all’inizio, per giungere finalmente al punto in cui potrò voltarmi ed attendere, devo fare ancora alcuni passi che sanno di travaglio. Davanti a me, un paio di banchi vuoti. Perché sì, a volte il cuore si spaura. Così semplice, così comodo tornare nel noto, nel conformismo. Così banalmente facile smettere di sognare per mettersi a pretendere di viverlo, il sogno. Il primo che capita, relegando gli altri al mondo del sonno.

Qui, tra i banchi vuoti, prendo l’ultimo tempo, quello che serve. Panche vuote come il baratro al quale mi sono avvicinato, avvicinato ancora. Fino a danzare sul bordo. Fino a sporgermi e a perdere l’equilibrio. Fermo a chiedermi quanto potessero resistere le braccia mulinanti prima di stancarsi, prima di lasciarmi scivolare giù. Lì, ho danzato. Danzato con la fine, una fine almeno, una delle tante, prima ancora che il giorno avesse davvero inizio. Prima che tutto potesse avere inizio, perché per un attimo avrebbe potuto non averlo mai.

È stato un lungo attimo, mentre i miei vent’anni mutavano in trenta, come quando vedi un fulmine accecante e aspetti che arrivi il tuono a rimbombare. Ma il temporale è lontano e solo un leggero brontolio viene a farti notare la tua distrazione.

È stato. Perché poco oltre ecco che appare la prima fila. Prima fila da programma, genitori piangenti e sguardi emozionati. Non ho bisogno di pensare a chi c’è su quelle panche. Sono il presente, parte di me. Dietro di loro la lunga marcia torna a rivelarsi un piccolo scatto, una piccola porzione di strada a fondo chiuso. Quella che ho percorso per arrivare a questo punto di partenza. Da qui sembra breve e stretta, tanto che posso lasciarla andare senza fatica, senza rimpianti, senza rancori. Non c’è orizzonte, oltre questo momento. Inizia qui, questa è la nascita.

Tutto sommato, non è nemmeno falso che la mente ti si svuoti, come ad un neonato. Succede ora. Lei è lì, nella luce della porta. Il fotografo sarà contento, non dovrà pensare a me per un po’. È un attimo. È al mio fianco, ed il tempo non ha più significato. C’è sempre stata, paziente, a vegliare il risveglio, ad accendere i fuochi e a rischiarare le notti. Ha preso il matto, il dormiente, il ragazzino, e tutte le parti che mi compongono. Ha atteso che si ricomponessero e, forse, senza di lei non si sarebbero ricomposte mai. È ben strano essere qui, all’inizio di tutto, quando tutto si fa misterioso, ed essere al contempo così saggio, nella sicurezza di lei e dei suoi occhi enormi, spauriti e divertiti ad un tempo.

Peccato solo per questo tizio che continua a parlarmi nell’orecchio. Cosa avrà da rompere proprio adesso?

Ah, è vero, devo rispondere. E so cosa voglio dire.

 Giorgio Arcari

Fonte: leggereacolori

Foto di Artie Navarre da Pixabay