Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi composta il 22 ottobre 1829

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi composta il 22 ottobre 1829. Giacomo Leopardi compose la poesia dal titolo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia tra il 22 ottobre del 1829 e il 9 aprile dell’anno seguente. L’ispirazione per questa opera venne dalla lettura del Voyage d’Orenbourg à Boukhara fait en 1820 del barone russo Meyendorff, colpito dalla narrazione dei pastori kirghisi dell’Asia centrale, e di come fossero soliti intonare alla luna piena lunghe e dolci nenie.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è l’idillio che racchiude il pessimismo cosmico di Giacomo Leopardi. E’ incentrato su quello che Tolstoj chiamava “i maledetti problemi“, che sempre si ripropongono, perché nessuno ha mai dato una risposta universalmente e definitivamente convincente a queste domande: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Qual è il senso e il significato della vita? Perché siamo sempre insoddisfatti e inquieti?”.

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Nella «Quiete dopo la tempesta» e nel «Sabato del villaggio» Leopardi svolge il tema dell’illusorietà e della vanità della gioia umana, nel Canto notturno egli tratta il tema della vanità stessa della vita per tutti gli esseri, uomini e animali: “… dentro covile o cuna/è funesto a chi nasce il dì natale” (vv. 142-143). Il più infelice però degli esseri viventi è l’uomo: è la sola creatura consapevole della propria infelicità, afflitta dal tedio della vita, dal senso cioè di una profonda e totale insoddisfazione perché tutto è scolorito, meschino e insignificante al suo interiore bisogno di assoluto e di infinito.

Il canto è costituito da un susseguirsi di domande e di riflessioni, che interrompono l’ideale colloquio tra il pastore, in cui si adombra il poeta, e la luna, che qui non è più la confidente consolatrice dei piccoli idilli (v. Alla luna), ma è un astro gelido, indifferente, distaccato, simbolo della natura bella e impassibile verso il nostro soffrire, così come appare nel dialogo tra la Natura e un Islandese.

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Fa da sfondo al colloquio il paesaggio notturno, silenzioso e sterminato, che accentua il senso della piccolezza dell’uomo nell’immensità del creato, e il senso del mistero che lo avvolge. Da notare che tutte le strofe terminano con la rima costante in -ale. che suggerisce, come dice il Fubini, un’impressione musicale di antichissima nenia.

Il tono del canto è elegiaco, perché esprime l’elegia, il lamento del poeta sulla sorte dolorosa di tutti gli esseri viventi.

Come anticipato e come scrive il Pazzaglia “lo spunto fantastico venne al poeta dalla lettura di un viaggiatore russo (il barone Meyendorff), il quale raccontava che i pastori Chirghisi (un popolo dell’Asia centrale) passavano la notte seduti su un sasso, guardando la luna e improvvisando canti. La scelta di questo personaggio (il pastore), essere primitivo e immune da ogni preoccupazione intellettualistica, consente al poeta di cogliere il dramma della situazione umana nella sua condizione più elementare“.

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Nelle prime strofe (vv. 1-20) il pastore, osservando la luna, scopre un’analogia tra la vita della luna e quella propria. Come la luna sorge la sera e cammina per le vie del cielo contemplando dall’alto la terra, anche il pastore sorge all’alba, spinge il gregge al pascolo, contempla la pianura, poi la sera torna stanco all’ovile e non spera altro. Di fronte alla monotonia di questa esistenza, il pastore domanda alla luna qual è lo scopo del corso degli astri e della vita umana. La domanda non cade nel vuoto, l’accoglie il poeta stesso, nelle vesti del pastore, che, nella seconda e nella terza strofa (vv. 21-60), espone l’allegoria drammatica della vita umana. La vita umana è una corsa affannosa verso la morte, verso il nulla: somiglia al destino di un vecchio infermo con gravissimo fascio sulle spalle, che attraverso mille difficoltà corre verso l’abisso, simbolo della morte, nel quale precipita e si annulla.

Se dunque l’uomo nasce per soffrire, è meglio non nascere (vv. 61-104).

Solo la luna, forse, creatura immortale, conosce il significato e lo scopo della vita, il pastore ignora tutto, sa soltanto che vivere è soffrire.

Il pastore stima felice il gregge, perché è solo pago di cibo e di riposo e non è tormentato dal tedio (vv. 105-132).

Forse, conclude il pastore, se io possedessi le ali per voli più sublimi o il dono dell’energia cosmica, se io cioè non avessi i limiti della mia natura, sarei veramente felice. Ma anche ciò è una vana illusione: il giorno della nascita è funesto (apportatore di dolore) a tutti gli esseri, nascano essi in covili, siano cioè essi animali, o siano posti in una culla, siano cioè essi uomini (vv. 133-fine).

Fonte: biografieonline.it

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