Il ritorno dell’amore un racconto d’amore di Giovanna Albi

Il ritorno dell’amore un racconto d’amore di Giovanna Albi, Sono letture brevi per dimenticare per un momento il quotidiano, le preoccupazioni e calarsi in un mondo di fantasia che a volte sfiora anche la realtà, un racconto di Giovanna Albi che parla di amore, sentimento che fa gioire e soffrire insieme, da leggere tutto di un fiato.

IL RITORNO DELL’AMORE

Teramo in fiore festeggiava l’arrivo di una primavera tardiva, gli uccelli si levavano in volo aprendo le ali nell’aria tersa di un pomeriggio inoltrato. Gli ultimi bagliori del sole si riflettevano sulle mura del duomo medioevale, illuminandone la scalinata gremita di giovani conversanti piacevolmente sulle note che dall’organo interno si diffondevano nella piazza centrale. Lungo il corso l’umanità si muoveva solerte verso la cattedrale che celebrava l’anniversario della sua edificazione alla presenza della comunità cristiana raccolta intorno al vescovo che recitava l’omelia compunto e solenne, aprendo benevolmente le braccia verso gli astanti in preghiera. Il sole si infiltrava attraverso il rosone centrale illuminando i banchi dove all’in piedi ci si scambiava il segno della pace. Ero tornata nella mia città natale dopo trent’anni, una malattia rapida e aggressiva mi aveva portato via l’affetto più caro: il padre partigiano, nobile filosofo, forte come una quercia piantata a terra con profonde radici, integerrimo, politico valente, impegnato nel sociale, direttore di un centro di recupero di ragazzi tossicodipendenti. Il mio dolore totale e autentico, mi sentivo sradicata, annaspavo guardando i visi dei miei vicini che innalzavano inni al Signore. Quel lutto era un pugno allo stomaco dolorante, non mangiavo da tre giorni, lo sguardo perso nel vuoto della solitudine interiore; mi scorrevano davanti agli occhi le immagini di quel padre temprato da una vita di sacrifici votati alla causa comune, il suo sorriso che si apriva nel bruno incarnato di un volto antico nella sua bellezza dirompente, i neri e setosi capelli, le mani calde e forti riattivavano nella memoria il ricordo di un padre esempio di virtù stoicamente incarnata.  Triste e pensosa osservavo l’interno della cattedrale, non sapendo bene dove poggiare lo sguardo che tradiva una malinconia inequivocabile. Avrei voluto che gli altri non si accorgessero di me che mi sforzavo di concentrami nella preghiera, giocando nervosamente con le chiavi di casa, quella casa ora vuota degli affetti, quella casa avita che aveva ospitato generazioni di cuori battenti per i più alti ideali politici e sociali.

Ricordavo il nonno Gaspare il Partigiano, segretario di partito ai tempi di Togliatti, il suo profondo amore per l’universo femminile, la sua fisionomia alta e potente, la sua voce stentorea, il nobile incedere, l’attaccamento alle sue pure origini abruzzesi, il suo conversare sotto il portico della casa con i compagni di partito, la gradevolezza di tutta la persona amata e stimata da tutti i concittadini. E poi la nonna Ezilda, piccola e minuta, le sue “pizzonde” fritte, l’aroma di limone che emanava dalla cucina in muratura su cui era affisso lo stemma della famiglia, un leone con lo stendardo del comune di Teramo, la sintesi del potere morale e del senso civico di una famiglia di nobili origini, la cui grandezza era nota a tutta la città. Assorta in simili pensieri, sentii una mano che stringeva la mia, la riconobbi, era lui: il mio primo amore, mai rimosso dalla mia memoria felice. Ne avvertii la potenza dello sguardo, gli occhi scuri e penetranti mi attraversavano il corpo dolente, alzai gli occhi trasecolata da cotanta sorpresa, lui, proprio lui, Gianni, mi era vicino, mi stringeva a sé, mi sorrideva con la pienezza della sua persona che conoscevo bene per averne sperimentato la forza del sentimento. Il cuore mi sobbalzò nello sterno, la temperatura si elevò improvvisamente, sentivo caldo e freddo, la lingua mi si spezzò, non riuscivo a proferire parola. Un’emozione potente mi attraversava, mi entrava sotto la pelle e dentro le viscere, le mani sudate, il sorriso straniato, lo sguardo assente, lui mi abbracciava standomi alle spalle e mi accarezzava i capelli.

L’avevo ritrovato dopo trent’anni; io l’aspettavo e non lo sapevo; avevo imbastito una relazione fallimentare con un mio ex compagno di università, rincontrato a Londra, un incontro occasionale aveva ricucito un’antica amicizia sfilacciata dalla corrosività del tempo. Un rapporto freddo sentimentalmente, tutto proiettato a livello intellettuale, mentre il gelo interiore si impossessava di me. La totale disillusione nella possibilità di rispecchiarmi nell’uomo come caro compagno di vita. L’avevo lasciato, Marco, nell’aprile dell’anno precedente, dopo quattro anni di disagio psicologico profondo con una scelta radicale, senza pentimenti né rancori, ma solo con questa consapevolezza disarmante di non avercela fatta ancora a strutturare una relazione costruttiva e duratura con l’universo maschile. Rimanevo intimamente legata a quel padre, ideale non eguagliabile, mi sentivo in difetto di tutto, nessun amore, solo intelletto applicato anche nella gestione della dimensione amorosa fallimentare; diversi uomini mi avevano accompagnata lungo l’accidentato percorso di una vita deficitaria sotto il profilo affettivo, ma nessuno come lui, come mio padre, aveva mai riempito i miei vuoti e sostenuto le mie debolezze.

D’un tratto avevo rincontrato Gianni come un sogno apollineo dentro la maestà della cattedrale romanica, l’unico in grado di competere col padre, l’unico che desse un senso alla mia esistenza franta tra i mille rivoli del quotidiano. La sua mano stretta alla mia mi riportò agli anni dell’adolescenza, quando ci scambiavamo furtivi baci dietro le mura dell’anfiteatro romano e nella villa comunale, seduti a osservare il laghetto artificiale su cui nuotavano papere dal variopinto piumaggio, mentre il sole o la pioggia accompagnavano le nostre giornate tutte diverse perché diversamente intonate a quell’armonia di suoni di cui risuonava il nostro amore assoluto. Avevamo a lungo riflettuto sull’eternità dell’amore, su quel sentimento sublime che travolge le anime giovani prima che l’età più matura innalzi palizzate d’intelletto a contenere l’esuberanza della passione che sgorga istintiva ed essenziale nella sua disarmante prepotenza.

Ci ritrovavamo soli in riva al mare d’inverno a osservare le nuvole che disegnavano arabeschi nel cielo, a contare le stelle che punteggiavano il cielo nelle sere estive mentre il furore imprigionava le membra che solo baci, mille baci e poi ancora mille chiedevano al tempo rapace che tutto involve. Il nostro sentimento stava lì, forte e pungente, in sfida dichiarata a chiunque osasse ostacolare con principi moralistici il nostro scalpitante bisogno di rincontrarci ancora e poi ancora tra carezze rubate alla luna e sussulti dei corpi avvinghiati nell’esaudimento di un bisogno ancestrale. Leggevamo poesie di poeti furibondamente innamorati e gridavamo al mondo insulso la nostra passione precoce consumata ai tempi dei banchi di scuola. Avevamo quattordici anni e ai quei tempi (erano gli anni settanta) era vietato nelle famiglie più a modo giacere in amplesso; il che rinfocolava la passione che sembrava mai sopirsi, ma sempre rinnovarsi sotto la pelle cocente. Chiamavamo a testimoni gli dei del nostro amore e giuravamo che mai e poi mai avremmo visto naufragare il nostro sogno di amore perfetto; cercavamo il contatto lungo i corridoi della scuola, edificio austero di epoca fascista, sotto gli sguardi di sferzante condanna dei professori compunti, chiusi nel ruolo di educatori implacabili. La sfida era ardita e questo rintuzzava la voglia di osare ancora, proprio per il discredito che sembrava cadere su di noi, quando ci scambiavano sguardi ammiccanti che alludevano al desiderio di riprovare ancora le stesse emozioni.

Al suono della campanella di uscita, ci trovavamo a correre come pazzi verso i giardini pubblici, dove la voglia repressa tra le mura scolastiche poteva trovare una via di espressione. Poi a casa a nascondere i segni lasciati dai baci rubati a un’educazione castrante. I pomeriggi a condividere la passione anche per il greco e il latino, Ovidio insegnava l’arte di amare e il suo testo sgualcito accompagnava le notti insonni a sognare l’amore; qualche fuga notturna pacificava i sensi e i corpi avvinghiati al chiaro di luna giacevano sulla riva del mare. I giorni si confondevano con le notti e un unico desiderio urlava dentro le menti in estatico abbandono; gli amplessi notturni lasciavano i segni negli occhi scavati dalla passione. Tutto sembrava essere il coronamento di un amore possibile, lungo quanto la vita; un giorno, buio per me come la notte più tempestosa, Gianni lo vidi assente, distratto, assorto in mille tormentosi pensieri, mi abbracciò in una stretta mortale e mi disse: “ è tempo di andare, io a vivere per altri percorsi di vita, tu resta pure in attesa di un amore che ormai è tramontato fulgido così come era nato. Questo amore mi strugge e sono ancora giovane, non voglio perdere altre opportunità”. Io ne piansi senza verecondia per anni, aspettando il mio Odisseo che più non sarebbe tornato. Tessevo la tela dei ricordi e mi inabissavo dentro lo sconforto; pallida, assorta, assente, smunta, nutrivo una feroce passione nel petto; i cuscini bagnati di pianto, il rimpianto, il vuoto, la mancanza, il desiderio, una coltre di malinconia mi rendeva apatica, insofferente; trascuravo gli impegni, dimenticavo il presente, tutta proiettata nel mitico passato dell’amore. Ci provai a dimenticare, ma davanti gli occhi lui, sempre lui, lui e mio padre, il che era per me l’identica cosa. Avevo intessuto con la fantasia una corrispondenza intima e forte tra i due uomini della mia vita. Li vedevo con l’immaginazione tornare insieme a casa; mangiare al medesimo desco, condividere passioni politiche per poi rivolgersi a me con amore incontenibile. Loro erano nel mio sogno diventati l’incarnazione del mio desiderio più autentico, del mio bisogno di mettere radici sulla nera terra. Mio padre mi sentiva piangere di notte e mi coccolava rimboccandomi le coperte a facendo anche da madre, quella madre che non ho mai avuto perché morta in giovanissima età quando avevo un solo anno di vita; sentivo il suo tepore, accarezzavo i suoi neri capelli, le spalle imponenti e vedevo Gianni intrufolarsi nel mio letto disfatto dall’amore naufragato.

Mai più lo vidi per le strade della città; lo sognavo come un cavaliere integerrimo che sarebbe tornato a riprendere la sua principessa lasciata solo per malasorte, per l’invidia che aveva scatenato la loro relazione perfetta. Credevo che gli dei fossero stati invidiosi di noi che li eguagliavamo in perfezione, sostituendoci a loro nel provare un sentimento tanto prepotente quanto eterno. Mi sentivo braccata da me stessa, incapace di trovare risorse interiori che placassero l’urgenza di quel bisogno di pensare sempre e comunque il mio primo amore. Affranta e sconfortata me ne andai a Bologna, a frequentare l’Università di lettere classiche; qui mi ripresi a contatto col magma incandescente di un ambiente a me congeniale, ricco di risorse intellettuali e umane. Terminai con successo gli studi mai più pensando consapevolmente a quel ragazzo dagli occhi neri che mi aveva stravolto l’esistenza. Intrecciai relazioni amorose fugaci con giovani studenti come me, poi un inglese maturo mi portò a Londra divorata da un insana passione per un uomo dell’età di mio padre che mi fece sognare un amore possibile tra due così diversi per carattere ed età. Somigliava molto a mio padre, negli atteggiamenti, nelle parole, nell’impegno politico, nella postura eretta e soprattutto nelle mani calde che richiamavano alla mia memoria quel rimboccare delle coperte, in cui coccolavo i miei sogni adolescenziali. Era il mio professore di greco, da lui appresi l’esegesi dei testi, lo spirito critico, l’indagine callida, ma soprattutto l’amore per quella cultura che mai tramonta: quella ellenica, nella quale sempre ripongo la fiducia in un futuro migliore. Un malore improvviso lo colse durante una lezione a Londra che me lo strappò via in ventiquattro ore, lasciandomi ebete dal dolore per circa due anni.

Poi rincontrai Marco al luna park, il due di novembre del 2000, durante la fiera dei morti, mentre mi imbrattavo di zucchero filato; lui vide in me quel sogno da ragazzo mai dentro di lui tramontato. Mi rincorse, mi fece la contro strada, si stagliò davanti a me con l’esuberanza del giovane corpo eretto in nobile postura; lo riconobbi, l’inconfondibile Marco, il radical chic degli anni universitari, il figlio di ottima famiglia fiorentina che vantava illustri natali, l’intellettuale incallito, lo sciorinatore di versi classici, la voce di dissenso critico nelle aule dell’ateneo bolognese, l’acuto esegeta dei testi greci e latini. Mi innamorai della sua testa, convinta che il suo intelletto avrebbe placato la mia fame di amore, stornando da me l’immagine di quel professore di greco che mi aveva invasato la mente, il corpo e l’anima tutta. Stemmo insieme quattro anni a Londra, dove ricoprivamo la cattedra universitaria; andammo a lavorare nel medesimo dipartimento, condividendo passioni politiche e impegno culturale. Più cresceva l’intelletto, più moriva la passione della carne e il desiderio inespresso mi balzava dentro la testa come un imperativo categorico: lo devi lasciare! Così fu con disperazione totale dell’altro che si vide mancare l’amore della sua vita. Una vita che segue corsi e ricorsi: lui mi perdeva come io Gianni; ecco che il pensiero di lui ritornò vivido nella mia mente prostata dalle cocenti delusioni in amore, dalla difficoltà a trovare una forma di equilibrio tra il corpo che chiedeva soddisfazione e la mente che si appagava nella ricerca della parola elegante e forbita, che messa su carta risuona nelle tenebre del mondo. Ero diventata anche scrittrice e raccontavo in stile neoclassico la mia odissea su questa terra; riscuotevo un discreto successo di pubblico, soprattutto tra gli esperti di semiologia del linguaggio e mi inabissavo dentro di me e davo voce al mio desiderio di comunicare ai miei simili il mio disagio esistenziale e la mia spinta a cercare una interpretazione plausibile al mio male di vivere. La vita è un mestiere, che io apprendevo a fatica, leggevo, interpretavo, scrivevo, ma la mia ricerca mai si appagava di trovare risposte provvisorie; io cercavo qualcosa di grande, di autentico, di totale, di eterno.

Mi accostai così a Dio, rinnegai il mio paganesimo e cominciai a leggere i testi sacri della nostra religione. Il vangelo mi aprì nuovi orizzonti; mi fece sperare nella risveglio dalla mia indolenza con cui trascinavo una vita senza più emozioni forti; a poco a poco mi riempii del sacro verbo e così di giorno in giorno cresceva in me la fiducia in un domani migliore, lasciandomi alle spalle le zavorre del passato. Proprio quando la mia fede era diventata parte di me e mi sentivo in grado di sfidare le intemperie del tempo, questo, rapace, mi portò via mio padre in giovane età, ciò non mise in forse la mia fede incrollabile, ma in quella cattedrale romanica di Teramo andai a cercare una risposta al male che più di una volta mi aveva travolta portandomi via gli affetti più cari. Ero raccolta in preghiera, distratta, come dicevo, dal ricordo del padre assente, guardavo la gente come un naufrago che cerca il suo punto di approdo…poi la mano di Gianni mi sollevò da terra, il mio amore era tornato e con lui l’angelo di mio padre mi allontanava dalla più nera depressione nella quale avrei rischiato di cadere se non credessi intensamente che l’amore eterno esiste davvero e con esso il pensiero dell’ulteriorità. Credevo e credo che l’amore ci tenga lontani dalla morte, che un angelo ci accompagni in questa vita, che sarebbe un deserto di tenebre se non rifulgesse la luce di quel sentimento che ci lega a Dio attraverso un uomo.

GIOVANNA ALBI

Docente di latino e greco, collabora con l’UNIPG. Scrittrice, recensionista e critico letterario, pensa che “la bellezza salverà il mondo”.

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay